Cenere
Notte. Fuori la gente dorme, poche macchine girano per le polverose e buie strade, illuminate da nient’altro che alcuni fatiscenti lampioni.
E così, si sedette sulla poltrona più bella che aveva, e fissò direttamente fuori dalla finestra. Guardò l’orologio “è quasi ora”.
12 Novembre. L’anno non ha importanza specificarlo. Una mattina come le altre, lo smog, la puzza di gas del bus appena partito, lo stridio della bicicletta; nulla era diverso, dopotutto.
Indossò il cappotto, prese il portafogli, l’orologio, si sistema velocemente i capelli, e scese le scale come aveva sempre fatto. Camminava tranquillo lungo la strada, osservando come tutto sembrava così normale e familiare; il lavaggio era forse completato, allora.
Le foglie gialle e arancioni adornavano le strade, e i neri rami spogli facevano da sfondo al grigiore delle case, mentre il tutto splendeva su un letto d’erba verde e lucente, all’ombra dei sempreverdi.
Su quell’altalena dopotutto era normale salirci, giocarci, dondolarsi; anche per quella bambina.
La vide, come si divertiva, giocava, e si dondolava sempre più velocemente. Troppo velocemente.
L’altalena era ormai vecchia, cigolava ad ogni spinta, e lentamente ogni suo lamento era come un ultimo respiro prima della morte.
La catena si spezzò, e i cardini esplosero. La bambina ebbe giusto il tempo di urlare, di strillare, di piangere.
Volò sull’asfalto, e orde di persone subito si voltarono a guardare cosa si fosse fatta.
Lui era quello più vicino, quello che avrebbe potuto salvarla, se solo lo avesse voluto. Si girò lentamente, guardò per un attimo a terra, la bambina quasi non si muoveva.
Si girò di nuovo e continuò per la sua strada. Curioso, non aveva davvero provato nulla. Se fosse accaduto prima, ora già sarebbe in corsa verso l’ospedale.
Un tonfo sordo lo avvisò che tutto era finito, lei era morta, la gomma dei pneumatici è dura.
Continuò a camminare, il veleno del rancore non lo aveva minimamente attaccato, anzi, tutto gli sembrava così normale. Dopotutto, era probabilmente l’ultimo giorno che la gente moriva. L’ultimo giorno di sofferenze, per tutti, finalmente.
E così il messaggero aveva ben pensato di cancellargli tutto ciò che di personalità aveva, tutto ciò che di umano ancora possedeva. Ma a parte questo, il mondo era così normale. Solo a lui sembrava diverso, sembrava strano. Sembrava come se nulla ormai importasse, come se ogni azione perdeva di significato.
Che bello. Che bello pensò; non si sarebbe più dovuto preoccupare di nulla: di mangiare, di dormire, di vivere.
Come era triste il sole, pallido e grigio, i suoi raggi coperti dalla foschia, quel bellissimo effetto Tyndall che pochi non avrebbero potuto notare.
Ma la luce v’era, e con la luce, la gente vive.
“Peccato, che non vi sarà più. Peccato, che presto tutto ciò finirà. Peccato che il cielo perderà, il celeste eterno che da sempre ha avuto”.
Nel parchetto eccolo lì, avrà avuto dodici, forse tredici anni. Si, sapeva che dopotutto doveva farlo, alla fine non aveva nulla da perdere.
Apre il cancello, si avvicina. “Mi passi il pallone? Giochiamo a basket?”.
Il bambino era felice, finalmente qualcuno giocava con lui. Era un bambino come gli altri, era alto un metro e sessanta, forse sessantacinque, non di più.
Era così contento, vedeva in quell’uomo una persona di cui fidarsi, una persona con cui giocare.
E lui? Lui vedeva nel bambino un essere che sarebbe comunque morto. La sofferenza, era la differenza. Non sarebbe stato diverso il fine, se fosse morto così, o se fosse morto comunque fra poco tempo, quando l’ora sarebbe arrivata. Voleva fargli del bene forse, bene. Sembrava male, ma era solo bene. Le persone non potevano saperlo, solo lui poteva dirlo, solo lui era diverso, solo lui sapeva.
Gioca un po’, forse trenta secondi. Dopodiché, capisce che è arrivato il momento.
Prende il pallone, e lo scaraventa sulla testa di quel bambino. Cade per terra, piange e urla tenendosi la testa con le mani.
Lui si avvicina, lo guarda negli occhi: erano così innocenti, così pieni di speranza, probabilmente il bambino non aveva fatto nient’altro quel giorno oltre a giocare con il suo bel pallone.
Lentamente lo implorava: “ti prego – aiutami, ho paura, non ci vedo bene”.
Non una lacrima lui versò, e cacciata la pistola, la puntò diretta alla fronte del bambino. E sparò.
Tornò così in fretta a casa, mentre dietro di lui una donna piangeva incessantemente, forse era la madre. Prese il bambino, ormai senza vita, e insieme a lui si buttò da quel ponte che era sopra il lento fiume colmo di foglie d’autunno. Il dolore per lei era troppo forte, non era quello bene, quello era male.
Lui arriva a casa, chiude la porta, e aspetta. Il tempo passa, scruta la finestra, nulla ancora appare diverso. Solo il sole, che è sceso lasciando la città al buio. Forse non risorgerà mai più, no, mai più i suoi raggi sarebbero arrivati su quella terra. Presto tutto sarebbe finito.
Notte. Prende la poltrona, e scrutando l’orologio – “c’è ancora tempo per un caffè” – si sedette sorseggiando la bevanda.
La forte sirena gli fece capire che era questione di secondi oramai.
Un lampo fortissimo, una luce che anche se chiudi le palpebre ti acceca, come fosse una trivella penetrante che ti passa da parte a parte, come se fosse uno schiacciasassi che non si ferma dinanzi a nulla.
Durò solo una manciata di secondi, l’aria distrusse ciò che il fuoco non aveva terminato.
E di lì, rimase solo cenere. Cenere, che volteggiava nel cielo, il cielo era grigio, il cielo era scuro. Il sole, si era addormentato. Per sempre.