Il bambino e la casa
L’inspiegabile, come è possibile narrare l’inspiegabile?
Com’è possibile cercare le risposte a qualcosa di talmente ambiguo e allo stesso tempo terrificante?
Solo il tempo lo deciderà: mesi, anni, vite… chi può dire che questo errabondo pellegrino possa un giorno o l’altro trovare la pace?
Non mi piace scrivere le mie memorie in questo modo: pieno di interrogativi; a quanto pare la mia stessa scettica ed empirica anima è pervasa da dubbi e incertezze, su ciò che noi siamo,
da dove veniamo…. e dove andiamo. Dovrei forse rivedere tutte le mie conoscenze e dogmi di Madre Scienza?
Cambiare è orribile, e ancora più orribile è avere certe rivelazioni in un particolare modo.
Mi riferisco a un’esperienza di circa una settimana fa: da allora il sonno è venuto sempre meno, fino a stanotte in cui non ho dormito affatto: nell’angolo della mia stanza mi pare ancora di vedere quel volto…
No, meglio dimenticarlo per ora: potrei smettere di scrivere per il terrore di rivederlo tra le righe di questo diario.
O Giove! Perché mai ho scelto di vivere così solo, lontano dalle mie persone care?
Cosa darei adesso per stare accanto a qualcuno: fosse anche il mio peggior nemico! … pur di non stare da solo, come da solo assistetti a quell’evento.
Era una sera mondana quella, una calda sera estiva: in città era gran festa.
Bancarelle, musica, danze, bambini gioviali, anziani allegri, coppie di giovani innamorati.
Io ero l’unico solo e triste, a girare nelle vie alla ricerca di qualche vecchio amico, o almeno di un buon libro: una piccola consolazione per le mie giornate di studi sempre più pesanti, dalle quali quel giorno mi diedi una piccola e salutare vacanza.
Peccato che al calar delle tenebre il mio portafoglio era ancora intatto, e tra la folla mi sentivo ancora più solo.
Non era il caso di continuare a girovagare a caso: meglio tornare tra i miei odiati libri, loro si che avevano qualcosa da dirmi.
Mi allontanai così dalle vie principali e mi addentrai in un vicoletto poco trafficato: più mi distanziavo dal centro meno gente c’era e più le tenebre prendevano possesso del mondo e del sidereo.
Qualche lampada malmessa illuminava il mio cammino: non mancava molto al mio appartamento.
Iniziai ad attraversare una modesta piazzetta, a quell’ora completamente deserta, e illuminata da lampioni giallastri fissati sulle pareti degli edifici circostanti; su di essa si erigevano i fasti della nobiltà della zona: un edificio abbandonato la cui entrata era posta alla sommità di una scalinata, le pareti erano ormai in dissoluzione, l’accesso alla stalla nel piano inferiore sfondato.
Erano stati disposti dei lavori di ristrutturazione, ma come tradizione italiana si mette sempre la data dell’avvio dei lavori e mai quella della consegna, di conseguenza tutte le barriere che limitavano l’accesso all’abitazione erano state rimosse da qualche buontempone o poveraccio.
Innanzi a certi edifici storici il mio occhio è attirato con maggiore fascino della norma, in particolare quello in questione era la prima volta che lo vedevo: provavo ad immaginare il suo antico splendore, la famiglia al completo dirigersi verso la chiesa per la messa domenicale, la servitù ritornare a casa con le vettovaglie, i bambini giocare nell’atrio interno…. i bambini…..
Rimasi a fissarlo per uno, forse due minuti, poi volsi lo sguardo verso uno stretto vicolo che conduceva al di fuori della piazza.
Ormai stavo per imboccare il vicolo quando il mio orecchio udì qualcosa: un pianto silenzioso, di bambino.
"Mamma, mamma!"
Osservai la piazza, ma non c’era nessun bambino. Pensavo che il mio orecchio cominciasse a farmi gli scherzi, ma ancora udii quel sighiozzìo.
"Mamma…."
E’ strano il modo con cui quel triste pianto mi toccò l’anima e una sensazione di tristezza, di terribile tristezza mi invase.
"C’è qualcuno?" Urlai.
Silenzio.
Aspettai un po’, quando il pianto emerse dal silenzio capii da dove proveniva: da quella vecchia dimora abbandonata, forse un bambino giocando a nascondino era rimasto intrappolato dentro, fu la prima cosa che mi passò per la testa.
"Tranquillo, ti aiuterò io!" dissi rivolgendomi verso l’edificio, sperando che la povera creatura potesse essersi accorta della mia presenza.
Giungendo di fronte alla scalinata potei vederlo in penombra attraverso la porta di un balcone, sul lato destro del palazzo; iniziai a salire le scale con molta attenzione: sentivo il suo debole pianto, "Mamma, voglio la mamma" era quello che ripeteva con un tono triste e lacrimoso, quello di un’anima abbandonata.
Solcai l’ingresso, era molto buio; decisi così di usare la luce del display del mio cellulare per illuminare i miei passi. Non conoscendo la pianta della casa mi lasciai guidare dal mio senso dell’orientamento e dai sospiri singhiozzanti del bambino, sempre più forti, sempre più vicini.
Alla fine entrai in una stanza non molto grande, ma nemmeno piccola, molto probabilmente un tempo doveva ospitare uno o più letti; alla mia destra c’era un comò impolverato sopra il quale vi era uno specchio che rifletteva l’uscita sul davanzale.
Non vidi alcuna cosa riflettersi in esso, a parte la piazza antistante che si apriva dalla soglia spalancata, mi posi così al centro della stanza, e vidi una piccola sagoma appoggiata all’accesso sul balcone: era il bambino.
Alzai così il fascio di luce del mio cellulare al fine di vederlo in volto, ma a quella distanza facevo fatica persino a distinguere la figura per intero, iniziai così ad avvicinarmi, illuminandolo.
Sentivo quei pesanti sospiri, carichi di infelicità, di solitudine, di disperazione, che uniti al tanfo di legno marcio, di muffa, del putridìo di qualche topo morto, che pervadeva quella stanza, erano capaci di infondere in me, in perfetta empatia, lo stato di tristezza del bambino: una tristezza che sembrava onnipresente in quella sera, in quella piazza e in quella casa.
Un dolore di lutto, abbandono, separazione e solitudine: cominciai a ricordare il giorno della morte di alcuni miei parenti e gli incubi notturni di perdere ancora una volta una persona cara.
Ma come potevano venirmi in mente certi pensieri? A volte la mia immaginazione, unita alla mia malinconica emotività sono capaci di condizionare anche la giornata più felice; perché mai dovevo pensare a certe cose proprio lì, in quella casa? È ciò che pensavo mentre mi avvicinavo a quella triste figura, con la speranza di poter riportarla dai suoi genitori.
Arrivato a circa 3 metri dissi al bambino:
“Non aver paura, adesso ci sono io. Usciamo da questa casa, così potrai tornare dai tuoi genitori”.
Il bambino, prima abbandonato tra le sue lacrime, era ora silenzioso e fissava la piazza dalla finestra; aspettavo che si voltasse, che mi rispondesse… niente, era silenzioso… come un morto.
Così dissi: “Dai piccolo, ora è tutto finito! Non sei più solo!”
Ancora silenzioso; iniziai un po’ a spazientirmi. Così chiesi sempre con tono pacato
“Sei sordo? Adesso ci sono io con te, si torna a casa dalla tua famiglia! Sarà molto preoccupata per te!”
Dondolava leggermente ma non intendeva voltarsi né rispondermi.
Così mi avvicinai alle sue spalle lo presi per una mano e ripetei:
“Adesso usciamo da questa casa impolverata, dovevi stare attento! Metti che un calcinaccio si staccava da soffitto e finivi morto stecchito!”
Feci una piccola risata sperando di poter tranquillizzarlo, ma lui era sempre silenzioso.
Arrivati nel corridoio principale sentii il mio braccio tirare: il bambino si era fermato, così frenai il passo anch’io.
“Non voglio andare via” disse
“Allora non sei sordo, e nemmeno muto! Perché non vuoi andare via? Non vuoi ritrovare i tuoi genitori?”
“No…. Io devo rimanere qui”
“Rimanere in questo rudere pericolante?”
“Devo aspettare i miei genitori”
“I tuoi genitori? E ti hanno lasciato qua? Non mi sembra che siano molto buoni con te”
“No, la mia mamma è buona, buona! Mio papà è cattivo”
Presi il mio cellulare per vedere il suo volto, ma prima di illuminarlo gli chiesi:
“E tuo papà ti ha lasciato qua?”
“Si…” rispose singhiozzando
“Perché?”
“Perché ero cattivo”
“Eri cattivo? Non capisco, ora non lo sei più?”
“No…. Io………. Non sono!”
Gli illuminai il viso con la bluastra luce del cellulare e il mio sangue si gelò all’istante. La malinconia cedette il passo all’orrore. Cercai di lasciargli la mano, ma sembrava stringermi con un’energia inaudita, tirai con forza, mi liberai e corsi come un folle per il corridoio, poi uscii, attraversai la piazza con grande velocità. Non osai voltarmi verso quella casa, non solo temevo di vedere quel volto spuntare dalla finestra, ma temevo che quel piccolo, ombroso corpo mi seguisse, cercando di afferrare la mia mano.
Giunsi nel mio appartamento e rimasi tutta la notte a pensare a ciò che avevo visto e sentito: il giorno successivo mi recai da un mio amico, che ben conosceva la storia della città.
Restò molto colpito dal mio interesse per quella casa; non osai narrare la mia storia, per il timore che non mi credesse, che mi vedesse come un folle o un drogato.
Disse che attorno a quelle vestigia circolavano strane storie in merito: apparteneva a una famiglia nobile ma decaduta, poco si sapeva delle vicende intrafamiliari.
Ma quando il Comune, circa cinque anni fa, decise di restaurarla i lavori furono interrotti non per negligenza, ma per strani incidenti che sembravano moltiplicarsi con il passare dei giorni, un operaio per poco non ci rimetteva la pelle in quanto l’impalcatura che lo sosteneva crollò inspiegabilmente, nonostante l’attenzione e la sicurezza riportata nel condurre i lavori.
Alcuni operai dissero di aver visto un fanciullo aggirarsi per le stanze di quella casa, un fanciullo non normale.
È la stessa cosa che ogni tanto qualche passante vede tra le ombre di quella casa, nelle notti più buie e solitarie: una cosa che si affaccia dalle sventrate finestre e chiama a sé i viandanti della notte.
[La suddetta storia trae spunto da vicende e voci riguardo un antico palazzo tropeano, sito nei pressi di via Galluppi: in particolare riguardo avvistamenti di un bambino deforme che invita i passanti ad entrare nella casa abbandonata, la quale è stata opportunamente sigillata per via di adunanze notturne di tipo diabolico all’interno di essa.]